Il bullismo va in scena: Rodolfo, regista per il teatro sociale

di Angela Amorosino

 Teatro per una vita o una vita per il teatro?! Questo viene da chiedersi trovandosi dinanzi ad un regista creativo e sensibile qual è Rodolfo Fornario. Originario di Napoli ma salernitano di adozione, ha messo in scena uno straordinario lavoro teatrale per i bambini della scuola primaria, perché comprendano al meglio lo spiacevole e dilagante fenomeno del bullismo. Una lunga intervista dove ci ha raccontato gli esordi, il suo percorso e i suoi desideri per un teatro di qualità che attraverso lo strumento della dissacrazione vada ad alleggerire gli ostacoli che la vita ci ricorda di affrontare quotidianamente.

Rodolfo Fornario, regista e attore

Uno spettacolo sul bullismo destinato ai bambini dai sei ai dieci anni. Come e quando nasce questo progetto?

Tra i vari lavori fatti negli ultimi tempi, questo sulla piaga del bullismo è quello che mi sta più a cuore per motivi sentimentali.

Avendo un figlio di dieci anni ed essendo un bambino molto tranquillo, quando Gabriele mi ha parlato di alcuni amichetti che in qualche modo avevano degli atteggiamenti che potevano essere considerati da “bullo”, mi è venuto spontaneo lavorare su un tema simile. Oggi i bambini hanno un’esagerata sensibilità, per noi invece a scuola era tutta un’altra storia. Prendevamo scappellotti dai nostri insegnanti e nessuno diceva niente anzi a Natale i nostri genitori portavano il panettone e a Pasqua la colomba. I bambini che oggi si chiamano bulli c’erano anche allora solo che si chiamavano “scugnizzi”. Noi eravamo abbastanza abituati andando a scuola, di rischiare di poter fare la rissa con il bambino di turno, gli schiaffi, una volta si prendevano e una volta si davano. Tutto normale. Oggi i ragazzini son cambiati, non sono più capaci di difendersi sa soli e bisogna fare un po’ da guardaspalle, e questo spettacolo nasce dalle considerazioni fatte proprio con mio figlio da quando aveva sette anni.

 

Come è stato scrivere per un pubblico esigente come possono essere i bambini a quella età?

Facendo attenzione al linguaggio. Ho creato una commistione tra la commedia dell’arte, che adopera personaggi tipici come Pulcinella, la figlia di Pulcinella, e altri personaggi di stampo più favolistico come il principe, il brigante che chiaramente è il bullo, e il giullare di corte. Nel “Come e perché diventò bambino il re” c’è un chiaro riferimento ad un’opera di un grande autore napoletano come Antonio Petito, colui che ha rivoluzionato la maschera di Pulcinella. I bambini diventano parte attiva e sono coinvolti nel gioco teatrale. La cosa interessante è stato il grande riscontro da parte degli insegnanti, ai quali è piaciuto il messaggio che noi facciamo passare alla fine: uno dei modi per combattere il bullismo è essere uniti. L’unione fa la forza.

 In base alla tua esperienza nelle scuole, hai riscontrato un’adeguata attenzione, un giusto approfondimento di questo tema da parte del personale docente?

Il tema viene illustrato perché comunque se ne parla tanto in giro. Il tutto però viene trattato con le molle, perché il confine tra il “bullo” e il bambino un po’ più vivace è molto sottile. Non si è mai sentita una maestra dire: “…abbiamo quel bambino che è un po’ bullo” tutt’al più si usa discolo, molto sveglio.

Quale altro lavoro hai in cantiere destinato ai bambini?

In questo momento sto lavorando ad altri due progetti per la scuola primaria, uno sull’alimentazione ed un altro sulla storia di Salerno. Con il primo spettacolo cerchiamo di far capire che molte abitudini alimentari, sono sì cose che piacciono, però fanno male, e se oggi non fai attenzione a ciò che mangi, probabilmente poi da grande avrai problemi, oggi anche in Italia c’è una crescita esponenziale del problema dell’obesità.  Anche in questo lavoro ci sono personaggi molto particolari, come McPanz fautore del cibo spazzatura, Olivella sostenitrice della dieta mediterranea e il mago Ben Gnam Gnam  chiamato a risolvere l’annosa questione.

Questo lavoro mi ha permesso di rispolverare quella che è stata per me la mia origine artistica in quanto io nasco come prestigiatore. Dai dieci anni e fino ai ventisei, il mio approccio col mondo dell’arte è stato quello dei giochi di prestigio, e per questo spettacolo sull’alimentazione, li ho adattati ai bambini per far capire loro gli atteggiamenti sbagliati a tavola, approfittando del fatto che “il mago” è una figura che ha un grande appeal sui più piccoli.

 Il tuo lavoro per i più piccoli, da quando l’interesse per un pubblico così in erba?

Praticamente da quando mio figlio ha cominciato la scuola. Scrivere per i bambini è bello, devi calibrare il linguaggio, devi giocare con il linguaggio, e diciamo che sotto certi aspetti è un po’ il lavoro che abbiamo fatto con Voloalto. Comprendere come rapportarsi a chi hai difronte. Questo fa parte del mio bagaglio culturale in quanto io per diversi anni ho lavorato come formatore ed uno dei principi cardine era appunto quello di capire chi si avesse davanti per poi interagire nel migliore dei modi.

Il successo con Voloalto probabilmente sta proprio nell’attenzione che ho messo nella creazione del testo per gli attori “speciali” con i quali ci siamo rapportati. Sul bullismo ci lavoro da tre anni. Abbiamo scelto di andare nelle scuole per due motivi. Il primo è di carattere economico, in questo modo riusciamo a contenere i costi, offrendo un biglietto molto basso, non dovendo pagare il fitto della sala teatrale e del trasporto. Secondo motivo,  andando noi nelle scuole, e su questo mi sono anche confrontato con chi è del mestiere, il bambino essendo in un ambiente a lui familiare è meno distratto e pone maggiore attenzione a ciò che guarda.

 Qual è stato il feedback da parte dei bambini del progetto bullismo?

Loro si divertono tantissimo, comprendono tutto, anche perché noi in sostanza facciamo un gioco con loro, tutto è portato sul piano ludico. Noi gli insegniamo il trucco per combattere il bullo, che è fargli un “pernacchio” tutti insieme. Tendo sempre nei miei lavori un po’ a dissacrare, perché alcune cose vanno dette, sottolineate, ma altre volte bisogna contestare quel valore che hanno assunto in modo arbitrario, per cui il “pernacchio” credo sia la forma più dissacratoria, proprio come insegna Eduardo De Filippo in uno dei suoi tanti film.

 Dove trai ispirazione per ciò che scrivi?

Dal momento che sto vivendo. Per esempio quando ho scritto “Il Piccolo Principe 2.0” è perché quell’ambiente mi ha suggerito l’ipotesi di un mondo fantastico. Io salto da un testo in italiano ad uno in dialetto, senza problemi, senza i famosi limiti di cui parlavamo prima. Chi fa l’artista si esprime con quello che sente al momento. Se i ragazzi di Voloalto mi hanno dato la possibilità, devo ringraziare loro per avermi aperto il mondo del piccolo principe, perché è un mondo che non esisteva prima, e senza di loro non sarebbe mai esistito. Una delle soddisfazioni più grande è stata quando Vittorio Cei mi disse dopo aver ascoltato la lettura del testo: “è molto bello”. Dopo lo spettacolo mi chiamò in disparte e mi disse: “mi ero sbagliato, non è bello, è un capolavoro”.

Artista dall’età di dieci anni, hai lavorato in diversi settori fino ad arrivare a dedicarti anima e corpo esclusivamente al teatro. Perché?

Io appartengo ad una famiglia borghese, dove ho avuto due genitori stupendi, che purtroppo non ci sono più, due persone che venivano dall’esperienza della guerra, e quando io ho esternato la volontà di andare al liceo artistico mi venne categoricamente vietato, in quanto in quella scuola si fumavano gli spinelli. Mi sono ritrovato a frequentare una scuola che non mi interessava per nulla, il perito agrario, dove si fumavano gli spinelli ugualmente, e che alla fine non mi è servito praticamente a niente.

Quando finii la scuola cominciai a lavorare come rappresentante, facendo tanta esperienza. Ho lavorato anche in contesti dove sono stato molto gratificato, al Poligrafico della Zecca dello Stato, dove nell’anno duemila ho avuto il piacere di essere il venditore italiano che ha fatturato di più. Circa due miliardi in quell’anno, da solo.

Poi ho lavorato per dodici anni in un’azienda facendo contemporaneamente sempre teatro, una seconda professione. Quando c’è stata la crisi, questa società di Roma è andata a cadere fino al fallimento, ed io mi sono ritrovato a dover ripartire daccapo. Poi l’incontro con Antonella e a quel punto mi son detto, quello che era il mio secondo lavoro, ora sarà il primo. Da quel momento abbiamo cominciato a fare teatro ventiquattro ore su ventiquattro, perché quando tu fai questo lavoro in realtà lo fai in ogni momento del giorno, io per esempio stanotte ho finito di scrivere alle due.

Nel giro di sette anni abbiamo prodotto una serie di spettacoli non indifferente, tre anni fa poi aprimmo il laboratorio teatrale a Salerno, molto in punta di piedi, perché oggi chiunque abbia fatto un po’ di teatro apre un laboratorio, tanta gente fa teatro ma quando vai a teatro a vedere gli spettacoli, le sale sono vuote e mi chiedo come sia possibile fare teatro e poi non andare a teatro. Forse perché è una moda dire “faccio teatro” e intanto il teatro è in crisi.

Domanda di rito. Chi sono stati i tuoi maestri?

Io ho avuto due persone nella mia vita che mi hanno condizionato, mi hanno dato tanto teatralmente parlando. A diciotto anni cominciai tramite mio cugino, in una compagnia filodrammatica di Portici, poi passai ad un’altra di Torre del Greco, dove c’era un signore che si chiamava Pierluigi Ortiero che mi ha mostrato un teatro totalmente diverso. Con lui ho conosciuto Pirandello, Diego Fabbri, abbiamo fatto spettacoli particolari perché lui aveva una formazione particolare, era uno degli allievi preferiti di un altro grande che ha fatto la storia del teatro a Napoli, Lucio Beffi.

Qui ho capito che non esistevano soltanto Eduardo De Filippo o Eduardo Scarpetta, ma c’era un universo infinito. Si lavorava molto in lingua, si lavorava molto sulla dizione, poi in questo piccolo teatrino di Torre del Greco, il Teatro delle Arti, conobbi un altro grande artista, Gigi De Luca. Attore che ha lavorato tanto con Taranto, Eduardo, Luca De Filippo, Geppi Glesias, ultimamente è stato tra gli attori nel film di Ozpetek, “Napoli Velata” insomma un artista vero e al quale debbo dire grazie, perché quel “poco” che so fare l’ho rubato a lui.

 Per il futuro, a livello lavorativo, cosa ti piacerebbe, cosa ti auguri?

Mi piacerebbe avere uno spazio dove poter fare rassegne, fare il teatro che mi piace, ma soprattutto dove vi sia pubblico, ed evitare di andare in giro ad elemosinare o a raccattare persone. Per due anni a Salerno al laboratorio abbiamo fatto una rassegna dove abbiamo portato fior di artisti da Napoli, e abbiamo avuto difficoltà nel reperire pubblico, e questo è deprimente per noi e svilente per la città. Avere uno spazio, anche piccolo, però dove si riesca a fare sessanta-settanta spettatori a sera sarebbe bello. Mi auguro di riuscire a creare più che un teatro, un pubblico. Oggi bisognerebbe chiudere qualche scuola di teatro e creare qualche scuola di pubblico.

Per concludere, un consiglio in merito al bullismo di cui abbiam parlato in apertura di questa lunga intervista. Cosa diresti ai ragazzini vittime di questa piaga?

Non tacere. Parlare, sempre.Io credo però che il bambino debba incontrare il bullo, debba capire come rapportasi a lui. Bisogna dare il giusto peso al problema, capire quando c’è un comportamento socialmente a rischio e quindi intervenire o quando sia semplicemente meglio glissare, perché la vita, è fatta anche di cazzotti che non ti aspettavi.

 

 

 

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