Rachele, come vi racconto una bugia

Potremmo definire Rachele in tanti modi, perché fa tante cose. Tante cose, ma con un’unica motivazione: l’amore per i bambini. E’ mamma di due ragazze, organizza feste per bambini, opera come volontaria nei reparti di oncoematologia e di dialisi dell’Ospedale pediatrico nella Striscia di Gaza. Chiediamo direttamente a lei chi è Rachele oggi.

Le definizioni troppo strette mi stanno… troppo strette, ma, dovendo scegliere, amo definirmi una mamma clownPoter far sorridere un bambino è portare nuova luce nei suoi occhi, ma soprattutto portargli la vita. Quello che vorrei fare, e spero di poterlo fare presto,sia in Italia che all’estero, è di tornare a viaggiare per tornare dai miei bambini. Questo mi renderebbe molto felice e, se una mamma è felice, lo sono anche i figli.

E, proprio parlando di viaggiare, Rachele ci accompagna in un suo personale viaggio.

Rachele, come si costruisce una favola per denunciare la violenza

Si costruisce di getto, in cucina, su un  foglio di brutta senza starci tanto a riflettere. È come se fosse qualcosa da tirare fuori il più velocemente possibile. Poi, c’è da leggerla e rileggerla per usare le parole giuste per parlare ad un pubblico variegato. 

Partecipare al Festival della Bugia a Le Piastre di Pistoia per la terza volta, cosa significa in termini sociali

Significa, in questo caso specifico, dare un messaggio; un messaggio sociale forte per avere ancora di più cassa di risonanza. Due  donne, una mamma e una figlia, sono su un palco che raccontano una bugia, ma che, poi, in fondo una bugia non è.

Come si affronta la propria vita e le relazioni sociali dopo aver subito una violenza?

Si cerca di buttarsi tutto alle spalle , di “dimenticare in fretta”. Si cerca di pensare alle cose che ci fanno stare bene. Le relazioni, inevitabilmente, cambiano; siamo più vulnerabili, siamo diffidenti. La paura di essere inadeguati è dietro l’angolo. Spesso le vittime si incolpano di cose senza senso, distrutte psicologicamente da vessazioni continue. 

La violenza che una donna subisce spesso è fisica, ma sappiamo benissimo che quella psicologica, verbale, economica o sul posto di lavoro, non è meno pesante. In che modo si può rispondere?

Essere donna, madre, avere un cervello pensante, saper usare la dialettica, essere multitasking, non farsi mettere i piedi in testa, invece di rappresentare un valore aggiunto sono, spesso, degli ostacoli. Il rientro al lavoro dopo la gravidanza rappresenta uno spartiacque per le donne: l’ansia di doverlo comunicare come fosse una colpa, mentire ai colleghi, dover subire un interrogatorio in fase di assunzione, sono tutti atteggiamenti sbagliati che condizionano la vita lavorativa delle donne. Aver paura di vestirsi senza essere “un oggetto” che cammina, non poter tornare liberamente nel cuore della notte;  tutto questo fa sì che la donna venga messa sempre e costantemente in un piano diverso. Fin da piccola, costretta a guadagnarsi tutto con fatica, e mai apprezzata fino in fondo. Costretta, il più delle volte, a scendere a compromessi, o lasciata sola in famiglie pericolose, dove il possesso maschilista è ancora radicato. Non ho la bacchetta magica per far sparire tutto ciò, ma ho la potenza della  condivisione, ho lo strumento social per “mandare messaggi”, per educare. Noi mamme, soprattutto per chi ha figli maschi, abbiamo un compito ben preciso: dare un’educazione meno maschilista e una visione di maggior collaborazione,  soprattutto all’interno della famiglia. 

Quando accade un atto di violenza su di una donna, un bambino, un anziano o disabile, ricorre sempre la famosa frase “bisogna denunciare”, però ci sono casi in cui la denuncia viene ritirata anche più volte. Perché, secondo lei?

Quello che accade all’interno di ognuno di noi è molto personale. Possono esserci molteplici fattori: il retaggio culturale, la paura di ritorsione, la sindrome da “crocerossina“, l’assenza di aiuto e appoggio da parte della famiglia, la paura di non essere creduta, la paura di essere isolata, le false promesse. Tutti questi motivi potrebbero costituire uno o più ostacoli ad una ipotetica denuncia. Però, rispetto al passato, ora abbiamo un grande mezzo: i social che, se usati bene, rappresentano un grande aiuto. Denunciando, parlandone, mettendoci la faccia, facendosi consigliare, possiamo sostenere tutte quelle donne che hanno paura di non farcela; tutte quelle che si sentono sole. Io stessa ho usato quel palco per avere più visibilità,  quasi avessi avuto bisogno di tutto il coraggio che non ho avuto vent’anni fa.

Come sappiamo, Lei è molto impegnata nel sociale, con l‘Associazione Clowncare  presso l’ospedale di Ponte a Niccheri di Firenze. In arte è la dottoressa “Gomitolo”. Fare volontariato aiuta, secondo lei, a superare una violenza?

Impegnandosi in qualcosa che consideriamo la “nostra famiglia” sicuramente aiuta a saltare gli ostacoli. Impegnandosi per gli altri ci fa uscire dalla nostra comfort zone  e ci fa aprire agli altri, ci scuote dal nostro torpore. Parlarne, buttare fuori e farsi aiutare, fanno il resto.

Torniamo al Festival della Bugia. Ci spiega che aria si respira, come si partecipa e come si vive un’ esperienza del genere

Le Piastre è casa. L’Accademia è casa, La montagna è casa. E a casa si torna sempre. Partecipare è molto semplice. Si va sul sito, si guarda il tema del concorso  e poi si invia la poesia scritta se si vuole partecipare  alla sezione verbale; se, invece, si vuole partecipare alla sezione disegni, c’è un regolamento preciso, con una scadenza ben definita.  Il clima che si respira è di estrema familiarità, ci si sente subito a casa. Ormai, è la mia terza partecipazione e ho sempre portato dei temi sociali molto importanti: la Palestina, la dislessia, la violenza sulle donne. Con la mia associazione (Clowncare M’illumino d’immenso), quest’anno, abbiamo addirittura ricevuto la laurea ad honorem come bugiardi. Consiglierei, senza ombra di dubbio, la partecipazione. Se uno all’inizio non se la sente, può venire alla finale ad Agosto per respirare un pò di aria bugiarda e per capire di cosa si tratta. 

Cosa si porta a casa dopo la partecipazione al festival?

Si porta tanto, dopo la partecipazione ad un concorso del genere;  soprattutto in termini di attestazioni di stima, di affetto. In particolar modo, la mia partecipazione di quest’anno ha segnato un momento molto importante di riflessione che ha portato all’interessamento di televisioni, radio, giornali.  Il tema è stato molto d’impatto e il ritorno lo è stato ancora di più. 

Lei è stata anche nella striscia di Gaza con l’associazione dei Clowncare. Ci racconti questa esperienza

E’ stata un’ esperienza forte. La prima volta sono andata in aprile-maggio 2018 per 10 giorni; la seconda volta a novembre 2019 per una settimana. E’ davvero difficile raccontare tutto quello che ho vissuto, che ho visto; le emozioni, la rabbia che, in alcuni momenti, avevo dentro di me nel vedere certe ingiustizie verso i bambini, ma anche verso coloro che vi lavorano. Ad esempio, lo stipendio medio di un insegnante è di 200 euro al mese, ma potrei farne tanti altri. Devo dire che la seconda volta è stata ancora più difficile, però ho deciso di raccontare questa esperienza.

Noi lavoriamo nell’ospedale pediatrico a Gaza nord in oncoematologia e nel reparto di dialisi. Pensate che l’età media a Gaza è di 16 anni. Il nostro lavoro è quello di portare un sorriso a questi bambini, facciamo laboratori in ospedale, negli spazi o nei luoghi dove ci è consentito andare, lo facciamo anche casa per casa. La gioia più grande per me e per i miei colleghi è vedere i bambini sorridere, giocare e, anche se per un periodo breve , riaccendere la luce negli occhi, pur nella sofferenza della malattia e per il luogo in cui si trovano.

Lei ha due bambine. Quale è il modo giusto per spiegare loro la parola “Violenza”

Alle mie figlie ho sempre insegnato che ci si piega solamente per raccogliere la corona. Con  questa premessa voglio dire che, con il mio comportamento estremamente libertino, estremamente, a volte, un po’ sopra le righe, ho sempre cercato di insegnare alle mie figlie la parola libertà. Libertà di amare, di sentirsi sé stessi, di vestirsi esattamente e completamente come ci pare, libertà di giudizio … In tutto questo non c’è spazio per la violenza. Ho due figlie di età diverse e, logicamente, con ognuna di loro ho usato parole diverse. La grande ha un senso critico molto sviluppato ed è molto molto selettiva; questo porta a un metro di giudizio molto ristretto nel quale la violenza non è contemplata. 

La piccolina ha bisogno di esempi pratici per capire; ha pianto quando la mamma le ha raccontato del fidanzato cattivo ma, allo stesso tempo, era orgogliosa di essere sul palco proprio a parlare di questo. Non esiste un modo corretto o giusto per parlare di violenza. 

Ognuno, come in tutte le cose, è figlio delle proprie esperienze e, ognuno, sa che parole usare, quando usarle, come usarle. Ho sempre creduto che dire la verità sia la cosa migliore, a qualsiasi età. 

Siamo quasi alla fine della nostro viaggio. Molto spesso, noi della stampa veniamo quasi accusati di dare, subito dopo ogni evento di cronaca nera, “la sentenza”.  A volte, invece, capita che siamo accusati al contrario, cioè di parlare poco della morte di una donna uccisa. Lei cosa ci risponde?

Come sempre, ci vuole la mezza misura. Casi che, apparentemente, sembrano risolti nascondono tanto e casi complicati, a volte, hanno la soluzione sulla punta del naso. Io credo che il titolone sensazionalistico non giovi a nessuno. Indagare e ricercare la verità paga sempre. Il silenzio, a volte, gioca un ruolo fondamentale. Nei fatti di cronaca, la strategia del silenzio andrebbe attuata più spesso. 

Secondo Lei,  c’è una ricetta per capire se un uomo violento indossa il vestito da principe azzurro?

Alle prime avvisaglie, bisognerebbe fuggire. Le prime avvisaglie potrebbero essere estrema gelosia, scatti di ira, proibizioni, battute pesanti; non sempre è necessario arrivare alle mani per capire che sotto il mantello non si cela il principe azzurro.

Quale sogno nel cassetto vorrebbe realizzare?

Io? Vorrei fare l’insegnate di sostegno con i bambini disabili. Più sono gravi, più do il meglio di me stessa

 

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